Ingredienti (per 4 persone):Alla prossima, Daniele
400 grammi di pasta
2 melanzane di media grandezza
1 barattolo di funghi
1 confezione di panna vegetale
olio, sale, pepe
pan grattato
Preparazione: tagliare le melanzane a cubetti più o meno piccoli a seconda delle preferenze e soffriggerle in poco olio caldo (in alternativa si possono anche friggere in abbondante olio caldo ma risultano più pesanti e si spreca parecchio olio, tutto sommato inutilmente). Aprire il barattolo di funghi, scolarli e farli insaporire in un pentolino per pochi minuti con olio, sale e pepe. Nel frattempo mettere a bollire una pentola con l'acqua e far cuocere la pasta (in genere utilizzo le "maglie siciliane" di Libera Terra). Scolare la pasta più cruda che al dente, e poi unire le melanzane, i funghi e 3/4 circa della panna. Disporre il tutto in una teglia, versare sopra la rimanente panna e spolverare con pan grattato (o "mollica", come si dice dalle mie parti) ed eventualmente anche con del lievito alimentare in scaglie. Cuocere in forno per 15 minuti a 180°.
Ieri in Germania, nella tratta di 31 km fra Lathen e Melstrup, il Transrapid, un vero mostro tecnologico in grado di declassare i TAV nostrani al ruolo di anacronistici retaggi del passato, si è schiantato alla velocità di 200 km/h contro una piattaforma mobile destinata alla manutenzione causando la morte di 23 fra i 30 passeggeri del convoglio.
Un brivido corre lungo la schiena al solo pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se anziché una corsa di prova con una trentina di passeggeri a bordo si fosse trattato di una normale corsa di linea con il convoglio occupato da centinaia di persone e i brividi si moltiplicano se pensiamo che il treno si è praticamente polverizzato a 200 km/h una velocità inferiore alla metà di quella massima di 450km/h di cui il Transrapid è accreditato.
La causa della sciagura è stata attribuita ad un errore umano imputabile agli addetti alla manutenzione, ma il vero errore umano si palesa senza dubbio nello sciagurato progetto che pone sulla rotaia (per la precisione a circa 10 cm. dal suolo trattandosi di un treno a levitazione magnetica) un mezzo privo di conducente in grado di sfrecciare ad oltre 400 km/h nell’evidente impossibilità di porre rimedio ad una imprevista situazione di pericolo.Il treno a levitazione magnetica, attualmente a livello mondiale operativo solo nel collegamento fra Shanghai ed il suo aeroporto, rappresenta il gradino successivo al TAV nella scala evolutiva dei treni superveloci. Rispetto al "nonno" può vantare una superiore velocità ed un minore impatto ambientale delle infrastrutture (pur sempre fortemente invasive) deputate a farlo correre. La complessità delle stesse infrastrutture le rende però enormemente costose ed esistono forti perplessità legate alle conseguenze sul corpo umano del forte campo magnetico necessario per muovere il treno.
L’incidente tedesco, oltre a porre in risalto la pericolosità di sistemi di trasporto tanto avveniristici quanto scarsamente inclini al rispetto delle più elementari regole della sicurezza, ci porta ad una riflessione sulla spasmodica ricerca di "velocità" che ammorba la nostra società contemporanea.
E’ lecito domandarsi quante risorse energetiche ed ambientali sia ragionevole sacrificare sull’altare di un molte volte risibile risparmio di tempo.
Nonostante la diffusa propensione all’ipercinetismo e un’artificiosa "fretta compulsiva" che sempre più s’insinuano nelle nostre giornate, credo sarebbe opportuno riconsiderare razionalmente ritmi e tempi che ci stanno sempre più sfuggendo di mano.
Una normale linea ferroviaria, scarsamente impattante dal punto di vista ambientale, sulla quale corrano treni altrettanto normali, pilotati da un conducente in carne ed ossa, possibilmente puliti e sicuri, rappresenterebbe un vero segnale di progresso.
Il futuro non alligna nell’illusorio risparmio di tempo pagato a caro prezzo ma nella capacità di usare in maniera costruttiva il tempo che si ha a disposizione, premurandosi che ne ereditino un poco anche i nostri nipoti.
Ingredienti
Per 4/5 persone: 1 kg di patate - 300 gr di farina
Preparazione
Pelate le patate (se sono grandi tagliatele a pezzi così cuociono prima) e fatele bollire in abbondante acqua salata fino a quando non saranno cotte.
Scolatele e lasciatele raffreddare un attimo, poi schiacciatele con lo schiacciapatate e alla fine aggiungete poco alla volta la farina. Lavorate l'impasto con le mani fino a quando sarà bella compatta. Attenzione a non aggiungere troppa farina, altrimenti diventano durissimi!
Quando l'impasto sarà pronto, tagliatelo a fette e lavorate ogni fetta con le mani fino a quando otterrete una rotolo lungo e abbastanza fine. Poi tagliate ogni rotolo a pezzettini a forma di gnocchi.
Mettete sul fuoco una pentola d'acqua e quando bolle buttateci dentro gli gnocchi: quando sono cotti salgono in superficie da soli.
Scolateli e versateli nel piatto e conditeli come preferite.
Note
Volendo, gli gnocchi si possono anche congelare. Dopo averli tagliati a forma di gnocchi, disponeteli su un vassoio precedentemente spolverato di farina, facendo attenzione che non siano troppo attaccati fra di loro, e poi metteteli nel congelatore. Al momento di cucinarli, prendeteli dal congelatore e buttateli direttamente nell'acqua che bolle: si mantengono perfettamente.
La delegazione italiana alla conquista della Cina tra esaltazione e speranze, ma l’esportazione del modello di produzione e consumi occidentale nel paese più popoloso del mondo metterà in crisi l’equilibrio del pianeta
La corsa alla Cina è cominciata, lo sterminato mercato cinese, fatto di folgoranti ricchezze e povertà che genera manodopera a basso costo, promette grandi affari. Lo hanno capito bene per prime le multinazionali, poi sono arrivati i governi, compreso il nostro, e le luci sfavillanti del nuovo turbocapitalismo, assicurato dalla ferrea presa del partito comunista cinese, attirano come falene le imprese occidentali, dimentiche di violazioni dei diritti umani, pena di morte, nazionalismo alle stelle e bombe atomiche.
Una miscela esplosiva, guardata con sospetto in altri paesi, ma bonariamente e realisticamente sorvolata in Cina, nel nome del realismo e di un mercato di più un miliardo di bocche da sfamare e di case da riempire di prodotti di consumo.
La riproposizione del modello occidentale dei consumi, sostenuta dallo slogan «arricchitevi» di Deng Xiao Ping, ha già prodotto una crescita che surclassa le altre tigri e dragoni economici del sud est asiatico ed ha già generato inquinamenti e catastrofi ecologiche che, come costi, sono valutabili in almeno la metà della crescita di Pil prodotta in questi anni.
E non è un caso se proprio il mercato cinese delle tecnologie di disinquinamento è quello dove più sono impegnati paesi come la Germania. Si dice che i cinesi aumenteranno i consumi esponenzialmente nei prossimi anni, che dobbiamo essere pronti a cogliere l’occasione di un mercato potenziale di 300 milioni di nuove auto (magari “ecologiche”), dei gadget teconologici, dei prodotti di lusso e dei viaggi per la minoranza ricca (comunque almeno 100milioni di persone) e del soddisfacimento dei bisogni di base più elevati delle masse che, con l’inurbazione imponente degli ultimi anni, hanno creato le megalopoli più inquinate del pianeta.
Ma nessuno pare farsi una domanda semplice che pure il World Watche Istitute si faceva già dieci anni fa: Sarà possibile cavalcare il dragone, si può condurre la Cina ed i paesi dell’Apec verso uno sviluppo sostenibile?
A guardare certe città cinesi, già trasformate in discariche dei prodotti tecnologici di consumo occidentali ed in attesa dell’ondata del neo-consumismo locale, c’è da avere paura di darsi una risposta.
La Cina ha cominciato da qualche anno a perdere la capacità di nutrire sé stessa (anche per questo il regime è così preoccupato della fuga dalle campagne) , il problema ora non è più l’atavica fame cinese che i comunisti sono riusciti a sconfiggere a costo di immensi e durissimi rivolgimenti sociali, la prospettiva è quella tra un divario tra la produzione e la domanda di cibo, soprattutto per l’aumento del consumo di carne, un divario che è senza precedenti nella storia umana e forse ancora più pericoloso dell’enorme domanda di materie prime ed energetica che ha prodotto la crescita dei prezzi a livello mondiale.
Nonostante la ferrea politica di limitazione delle nascite, i Cinesi dovrebbero essere un miliardo e 600 milioni entro il 2030, a questo si aggiunga che la crescita economica ha portato un aumento dei redditi di una rapidità che non ha precedenti nella storia dell’umanità ed ad un’altrettanto rapida mutazione dei consumi, a cominciare da quelli alimentari, con un maggior consumo di carne, latte ed uova.
E più consumo di carne vuol dire necessità di più cereali da destinare all’alimentazione animale, il tutto in un paese dove la superficie agricola disponibile era già ridotta e l’acqua già scarsa per l’uso in coltivazioni irrigue; l’espansione di industrie, città, infrastrutture, dighe grandiose le stanno ulteriormente riducendo. Quindi la Cina si rivolgerà (lo sta già facendo) al mercato mondiale ed anche i suoi problemi di scarsità di terra coltivata e di acqua diverranno i problemi di tutto il mondo.
«Con ogni probabilità, non sarà in paesi devastati dalla povertà come Somalia o Haiti, ma nell’economia in espansione della Cina – scriveva già nel 1997 il presidente del Worldwatch Institute, Lester R. Brown - che vedremo l’inevitabile collisione tra la crescente domanda di cibo (e di consumi, ndr) e i limiti di alcuni fondamentali sistemi della Terra: la capacità degli oceani di generare nutrimento, del ciclo ideologico di fornire acqua dolce, delle colture di utilizzare efficacemente maggiori quantità di fertilizzanti. Le onde d’urto di questa collisione si ripercuoteranno su tutta l’economia mondiale, con conseguenze che oggi possiamo soltanto intravedere».
E’ la questione della sostenibilità posta al massimo sistema: l’esportazione del modello di produzione e consumi occidentale nel paese più popoloso del mondo metterà in crisi l’equilibrio del Pianeta, una cosa risaputa ma una preoccupazione che non sentiamo negli entusiastici commenti della delegazione italiana per la crescita cinese e per le porte spalancate su un mercato dei consumi infinito, che potrebbe rivelarsi un baratro.
900 grammi di farina di farro (anche se in genere uso la farina bianca, che sembra incontrare maggiormente il gusto delle persone ed in particolare della mia ragazza) , 1 bustina di pasta acida essiccata (15 grammi), 1 bustina di lievito per pane e pizza (10 grammi), 670 ml d'acqua (io in effetti ne uso meno, il mio consiglio è di andare a occhio...), 1 cucchiaino di sale, 1 cucchiaino di malto (di grano, di riso... quello che preferite o che avete in casa)Ci sarebbe anche una foto, ma come sapete per una questione di sobrietà ho deciso di non pubblicare nessuna foto su questo blog e intendo mantenere il mio proposito. Per vedere come viene, non vi resta che provare a farlo!;)
Preparazione: mescolare bene tutti gli ingredienti secchi, aggiungendo pian piano l'acqua e impastare a mano o a macchina (meglio a mano no? c'è più gusto). Lasciare riposare per 2 ore, coperto ed in luogo caldo. Impastare nuovamente, formando una pagnotta o dei panini (io per comodità faccio sempre un'unica pagnotta grande), mettere in forno non preriscaldato. Cuocere a 180-200 gradi per circa 1 ora. Si consiglia di porre nel forno una vaschetta d'acqua per umidificare.
New Global: il guru nell'isola
Come il movimento del Sessantotto, anche i new-global attuali hanno i loro guru intellettuali. Tra questi Serge Latouche, sostenitore nomade e brillante della teoria della “decrescita”. Come recita il titolo di uno dei suoi ultimi libri tradotti in italiano, l’economista francese è preoccupato del rischio - molto concreto ed immediato – che l’umanità non riesca a “sopravvivere allo sviluppo”. Per quanti della mia generazione hanno individuato nello sviluppo dei Sud del mondo (dal Meridione italiano ai Paesi del Terzo mondo) una mèta politica per cui spendersi, anche a costo di qualche sacrificio personale, la tesi suona abbastanza provocatoria. Né Latouche fa nulla per attenuarne l’impatto choccante: “Lo ‘sviluppo’ è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo. Ci sono parole dolci, che rinfrancano il cuore, e parole-veleno, che si infiltrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio ed oscurano il giudizio. ‘Sviluppo’ è una di queste parole tossiche” (pp. 28 – 29).
Ai responsabili della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” è sembrato che la sfida teorica e pratica fosse meritevole d’essere accolta, soprattutto dal punto di vista ‘meridiano’: non insiste, ormai da anni, Franco Cassano sulla necessità che il Sud smetta di idolatrare i modelli di sviluppo nordici e – senza presunzione, ma neppure complessi di inferiorità - elabori piste alternative? Che cessi di interpretarsi come il luogo “dove ancora non è successo niente e dove si replica male e tardi ciò che celebra le sue prime altrove”? Da qui l’idea di invitare Latouche ad un seminario di quattro giorni ad Erice - dalla sera del 3 al pranzo del 6 agosto (per informazioni e prenotazioni tf. 338.6132301-091.587437) - per provare a discutere con lui in maniera meno frettolosa di quanto consentano i talk-show televisivi o le sintetiche interviste giornalistiche.
Dopo la relazione iniziale dell’ospite francese, la discussione sarà avviata di volta in volta da alcuni esperti (Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo, Santo Vicari della “Università etica per la condivisione della conoscenza” di Bruxelles e Umberto Santino del Centro “G. Impastato”) che, pur riconoscendosi negli stessi scenari di sfondo, hanno maturato perplessità, riserve e critiche rispetto alle tesi di Latouche. Non è difficile, infatti, che esse - acute nella diagnosi dei difetti del modello capitalistico imperante, con le buone e con le cattive, su quasi tutto il pianeta – risultino meno convincenti quando si tratta di controproporre delle terapie. E’ vero, infatti, che - “di fronte alla mondializzazione” – bisogna reagire con “una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario e una deeconomizzazione degli spiriti, necessarie per cambiare il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a vivere nel dolore. Bisogna com! inciare a vedere le cose diversamente perché possano diventare diverse, perché si possano concepire soluzioni veramente originali e innovative ” (p. 95). Ma, in concreto, come attuare una “decrescita conviviale” ed un “localismo” virtuoso che restituisca alla gestione democratica dal basso la cabina di regia della storia? Il professore parigino non è prodigo di indicazioni operative (anche perché le strategie di coinvolgimento dei partiti, dei sindacati, degli stessi governi nazionali e regionali, vanno calibrate secondo il contesto specifico delle aree del pianeta). D’altronde non si può pretendere da un intellettuale che - oltre ad indicare la méta - preconfezioni i mezzi per raggiungerla. Latouche stesso sembra esserne convinto. “Se si è a Roma e si vuole andare a Torino, e si è preso per sbaglio un treno per Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un treno nella direzione opposta. Per sal! vare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli non ci si può limitare a moderare le tendenze attuali, ma bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo” (pp. 84 – 85): tuttavia “l’alternativa allo sviluppo” non può “prendere la forma di un modello unico. Il doposviluppo è necessariamente plurale” (p. 74). Se – grazie alla sinergia delle istituzioni e dell’associazionismo culturale - anche in Sicilia si configurassero, con maggior precisione e consistenza rispetto al passato, delle ipotesi in tale direzione, l’appuntamento ericino avrebbe raggiunto il suo obiettivo primario. La politica è soprattutto previdenza del futuro: al contrario di ciò che constatiamo, l’amministrazione del presente - con la sua routine spesso grigia - dovrebbe costituirne soltanto il risvolto inevitabile.
di Augusto Cavadi
... non c'è esempio migliore del significato che assume negli Stati Uniti l'espressione "sviluppare un'area" (to develop an area). Per "svilupparla" si distrugge radicalmente ogni forma di vegetazione naturale; si ricopre il terreno così liberato con uno strato di cemento (o, nel migliore dei casi, si semina un'erbetta rada che riveste i parchi pubblici delle città); se esiste anche una fascia di litorale, la si rinforza con un bell'argine di cemento; i corsi d'acqua vengono sistemati a terrazze (o meglio ancora, se possibile, in apposite tubazioni); si avvelena a fondo tutto quanto con potentissimi anticrittogamici e infine si vende il terreno al miglior offerente, cioè a un consumatore istupidito e addomesticato dall'assuefazione alla vita cittadina.
Konrad Lorenz - Il declino dell'uomo
Ed è proprio a tutela del rispetto per la diversità - nel dettaglio, le differenze di identità, orientamenti, comportamenti e scelte sessuali - che si costituisce ExO - Comitato Etero pro Omo.
ExO è una libera associazione di individui eterosessuali, assolutamente a-gerarchica ed egualitaria, che si propone di sostenere la causa della battaglia per la parità dei diritti dei cittadini gay, lesbiche, bisessuali e transgender.
Obiettivo di ExO è portare a pubbliche manifestazioni, quali ad esempio il Gay Pride, una rappresentanza di eterosessuali che si schieri apertamente, con decisione ed in piena trasparenza, a fianco dei compagni della comunità GLBT, troppo spesso lasciati finora soli nella lotta per la sacrosanta uguaglianza tutt'ora calpestata, rifiutata, umiliata, in una società clericale, sessista, razzista, intollerante o falsamente tollerante.
Chi aderisce ad ExO è fermamente convinto del fatto che dimostrare che una larga fetta di eterosessuali non si vergogna di sfilare per le città insieme ai propri concittadini gay, lesbiche, bisessuali, transgender e queer, senza il timore di veder intaccate virilità e femminilità - quasi come se avere gusti erotici condivisi dalla maggioranza fosse motivo di vanto - aumenti il peso delle richieste per i pari diritti reclamati dalla comunità GLBT.
ExO si fonda dunque sui valori della libertà di coscienza e di scelta, solidarietà, laicità. Si tratta di un comitato antirazzista, antitotalitario, antifascista e libertario, nonché ecologista e pacifista, ma di un pacifismo combattivo ed agguerrito, per nulla passivo, tanto meno acritico.